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Perché piccolo è bello e anche efficiente

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Ad un certosecessione punto di Oltre la Democraziabellissimo volume di cui non posso far altro che caldeggiarne la lettura – Frank Kastern, uno dei  coautori del libro, quasi utilizzando un metodo socratico d’indagine, invita i lettori a riflettere circa la bontà di uno dei dogmi costitutivi ed incontestabili, che, da secoli ormai, plasmerebbero l’immaginario collettivo, l’identità e la stessa dimensione morale della stragrande maggioranza delle persone che vivono e operano nei moderni Stati democratici.

È evidente, come esordisce lo studioso libertario olandese, che

Possibilità alternative di scelta e di competizione in un regime democratico sono invero assai scarse.

La gente considera fondamentale la concorrenza nel settore privato e in tale ambito desidera avere un mercato flessibile caratterizzato dalla presenza di diversi fornitori. Allora, perché mai non si dovrebbe avere un mercato libero e concorrenziale anche in ambito politico- amministrativo, ovvero un sistema con differenti governi locali in reale competizione tra loro in cui i cittadini si possano facilmente spostare, per vivere e lavorare, in quelle aree che ritengono essere meglio gestite? [1]

Detto altrimenti, quali benefici apporterebbe una reale concorrenza politico-amministrativa ai cittadini che se ne potessero avvalere? E quali sono i legami che sussistono tra le dimensioni di uno Stato e la sua attitudine ad avvicinarsi al modello ideale, come sopra descritto?

Posto che gli Stati di piccole dimensioni, come le ricerche teoriche tendono a dimostrare e i riscontri empirici, invariabilmente, a suffragare, sono sicuramente meno esposti ad una serie di esiziali conseguenze, che affliggerebbero invece i Paesi di più grandi dimensioni: e ciò anche in virtù della loro omogeneità e della spiccata sensibilità con cui i loro cittadini si sentono parte integrante di una ben individuata comunità.

Senza ovviamente la pretesa della completezza e della esaustività, cerchiamo di sintetizzare questo nostro ragionamento in poche battute.

 1) Le piccole dimensioni inducono alla moderazione

 Lo Stato di piccole dimensioni deve far fronte a costi gestionali ed organizzativi minori, o può comunque intervenire con più flessibilità ed efficienza per la loro risoluzione. In genere, inoltre, nello Stato piccolo gli effetti devastanti ingenerati dal peso dello Stato e dai costi della politica e della burocrazia tendono ad essere minimizzati e ricondotti entro confini più tollerabili.

Le piccole dimensioni indurrebbero cioè alla moderazione: e non potrebbe essere altrimenti, visto che la concorrenza fiscale imposta dagli Stati vicini e la consequenziale possibilità di “votare coi piedi”, da parte dei cittadini residenti, rischierebbero di pregiudicare il processo di preservazione e consolidamento della propria base imponibile.

Un piccolo stato ha molti concorrenti vicino, e se tassa e regolamenta i suoi cittadini in maniera più vistosa di tali concorrenti, dovrà patire certamente l’emigrazione e la corrispondente riduzione del gettito fiscale. Immaginate per esempio che una piccola casa o un villaggio siano territori indipendenti. Un padre potrebbe fare ai suoi figli, o un sindaco al suo villaggio, ciò che il governo dell’Unione Sovietica ha fatto ai suoi cittadini (cioè negare loro ogni diritto di proprietà sul capitale), o ciò che gli Stati in tutta l’Europa Occidentale e gli Stati Uniti fanno ai loro cittadini (cioè confiscare fino al 50% di ciò che hanno prodotto)? Evidentemente no. O ci sarebbe un’immediata rivolta e il governo verrebbe rovesciato, o tutti se ne andrebbero nel paese vicino [2].

2) Le piccole dimensioni tendono a contenere le dinamiche volte alla ricerca della rendita parassitaria

Il piccolo Stato non si trova ad essere completamente ostaggio delle politiche di rent- seeking (ricerca della rendita parassitaria), che caratterizzerebbero invece gli Stati più grandi.

E questo sostanzialmente per due motivi ben precisi: da un lato, la maggior trasparenza e la maggior conoscibilità, da parte dei cittadini interessati, delle misure politiche adottate. La dimensione è infatti una variabile inversamente proporzionale al grado di percettibilità e di intelligibilità delle decisioni assunte: logica ed esperienza insegnano che in un piccolo contesto è molto più semplice muoversi per sapere e conoscere, così come alquanto più malagevole, per i governanti, tentare di occultare le informazioni.

D’altro canto, l’accondiscendere a simili ricatti, a favore dei gruppi di pressione, imporrebbe una notevole ricaduta sulle posizioni dei singoli contribuenti: i costi pro-capite delle decisioni sarebbero ineluttabilmente più alti, in ragione della più limitata base imponibile su cui questi costi di ricerca della rendita politica andrebbero ad impattare. È di fatto palese che <<quanto più ampie sono le dimensioni della ‘popolazione sfruttabile’ – cioè quanto maggiore è il numero di contribuenti chiamati a finanziare una data spesa – tanto minore sarà l’incentivo a controllare l’utilità sociale e l’economicità della spesa stessa>>[3]. Al contrario, <<quanto più piccola è l’unità amministrativa e più omogenea la sua popolazione, tanto maggiore la possibilità di contenere gli sperperi della democrazia; tra persone che si conoscono o che si sentono in relazione vi è infatti una tendenza minore ad opprimere e derubare il prossimo>>[4].

Le comunità più piccole sviluppano una forte propensione alla conservazione delle proprie libertà, che si estende al controllo di eventuali nemici interni, ma anche di tutte le forme di parassitismo: la solidarietà pelosa, le finte pensioni, le finte povertà, gli arricchimenti illeciti sono il frutto di società grandi e private di ogni identità…

Il più facile controllo della spesa fa sì che le piccole strutture statuali abbiano anche costi minori. Gli apparati burocratici sono più ridotti, le strutture repressive sono quasi sempre inesistenti e quelle militari sono molto limitate. Tutto questo consente di avere pressioni fiscali piuttosto miti.

Non è infatti quasi mai vero che i grandi Stati possano, spalmando i costi gestionali su un numero infinitamente superiore di cittadini, diminuire il peso fiscale individuale perché le grandi strutture richiedono grandi e costosi apparati di controllo che costituiscono un volano di spesa spesso incontrollabile, perché le grandi strutture tendono ad aumentare le iniziative di autoaffermazione (sia al proprio interno che verso l’esterno) che hanno costi elevati, perché le grandi strutture sono inevitabilmente portate a invadere ogni spazio di attività: il centralismo politico scivola facilmente verso il centralismo economico e verso la tentazione del controllo totale delle risorse produttive sia direttamente che indirettamente tramite una pressione fiscale sempre più oppressiva[5].

3) Le piccole dimensioni promuovono la cooperazione ed incentivano gli scambi

Vi è un terzo aspetto che caratterizzerebbe i Paesi di piccole dimensioni, che non sempre viene percepito e valorizzato a sufficienza: la propensione di questi ultimi ad accogliere e far proprie le dinamiche della concorrenza economica e del libero mercato. Detto altrimenti, è la fisiologia strutturale di queste organizzazioni ad imporre questa scelta ben precisa, anziché un’altra:

 …più un paese è piccolo e maggiori saranno le pressioni per adottare un sistema di libertà degli scambi, invece che un regime protezionista. Ogni ingerenza degli uomini di Stato negli scambi con i non residenti limita con la forza la sfera degli scambi mutualmente vantaggiosi tra territori e porta conseguentemente ad un impoverimento relativo, sia all’interno della nazione che all’estero. Ma più il territorio e i suoi mercati interni sono piccoli, e più spettacolare sarà questo effetto…Aprendosi al libero scambio assoluto, anche il più piccolo territorio si può integrare totalmente agli scambi globali e approfittare di tutti i vantaggi della specializzazione delle competenze[6] .

 

4) Le piccole dimensioni possono sfruttare appieno i benefici rivenienti dalla concorrenza istituzionale

 Così come in un mercato libero il processo concorrenziale costituisce il mezzo più efficace per far propri i benefici rivenienti tanto dall’ampliamento, in chiave dinamica, del ventaglio di opportunità fruibili dagli agenti, che dalla praticabilità di soluzioni innovative, economiche ed efficienti, allo stesso modo il principio in questione può essere proficuamente impiegato anche in quei casi in cui sia lo Stato ad occuparsi, in via diretta, della erogazione di beni e servizi cosiddetti “pubblici”: solo da un effettivo ed operante principio di concorrenza politica ed amministrativa ci si potrà infatti attendere dei risultati concreti ed apprezzabili, quantomeno in materia di incremento dei livelli di efficienza nella fornitura, di diversificazione delle soluzioni, di contenimento dei costi produttivi e, di riflesso, di riduzione dei prezzi in capo all’utente-contribuente.

Ovvero, non potendo permettersi di operare in qualità di rigido monopolista, in forza della presenza di territori vicini intenzionati ad attirare i suoi contribuenti, offrendo loro una combinazione  più soddisfacente ed allettante di beni e servizi, in corrispettivo del livello di tasse corrisposte, lo Stato di piccole dimensioni sarebbe pressoché obbligato ad “mimare” i meccanismi propri di un’economia di mercato, internalizzandone logiche e dinamiche, e salvaguardando gran parte di quei vantaggi, economici e morali, che solo l’operare delle sue leggi è in grado di conseguire;  anche in quei casi in cui, per un motivo o per l’altro, la comunità non abbia inteso affidarsi allo stesso mercato per soddisfare la fornitura di dati beni o di dati servizi.

La concorrenza, come sappiamo, è innanzitutto un processo dinamico di “scoperta” e di individuazione delle opzioni più adatte a soddisfare, nella maniera più completa, i singoli bisogni individuali.

Tradotto in pratica, in cosa si sostanzierebbe mai quel celeberrimo “federalismo fiscale”, se non nell’immissione, nel contesto governamentale, del più alto tasso di concorrenza istituzionale possibile? Una concorrenza che deve essere incardinata sul livello territoriale più adeguato, da un punto di vista funzionale e di sostenibilità economico-finanziaria, alla gestione responsabile dei compiti e delle attribuzioni che si è inteso devolvere alla natura sussidiaria del potere pubblico.

Se da un lato, infatti, il senso più profondo del federalismo è in effetti da cogliere nella

natura sussidiaria del potere pubblico rispetto alla società libera e del potere centrale rispetto a quello locale. Dovrebbero essere affidate a meccanismi politici soltanto le decisioni inerenti a obiettivi di interesse generale che non possono essere realizzati dai privati, dalle libere scelte dei singoli, delle famiglie e delle imprese (sussidiarietà orizzontale); queste decisioni devono poi essere ripartite tra i diversi livelli di governo, dando priorità al livello più vicino possibile al cittadino (sussidiarietà verticale).

Insomma, in questa prospettiva, il federalismo fiscale è un sistema con il quale limitare le interferenze dello Stato sulla libertà degli individui e sul libero mercato, preferendo che – qualora un intervento pubblico si mostri necessario – questo sia anzitutto esercitato da un governo che è espressione della comunità territoriale in cui si vive: più vicino, più riconoscibile, più trasparente, ergo più sanzionabile[7].

Dall’altro, è pur vero che il processo concorrenziale tende a presidiare, e a mitigare in maniera ragionevolmente efficace, i “rischi da monopolizzazione”: in virtù della sua propensione ad attivare le pressioni competitive necessarie a far emergere e a selezionare le soluzioni “evolutivamente” più adeguate a rispondere alle esigenze di un dato contesto operativo, nonché in virtù della sua innata attitudine a garantire il ricorso, da parte dei suoi “utenti”,  all’esercizio del diritto di exit.

Esistono parecchi vantaggi che derivano da una decentralizzazione politica intesa come limiti strutturali al potere del governo. Immaginiamo un paese delle dimensioni degli Stati Uniti con solo cinque stati. Adesso immaginiamo lo stesso paese con 500 stati. A parità di condizioni, la seconda situazione ha molte più probabilità di essere favorevole alla libertà che non la prima. Quanto più piccola è l’unità politica, tanto maggiore è l’influenza che può avere ogni singolo cittadino in politica, diminuendo in tal modo il vantaggio che i gruppi di pressione organizzati hanno nei confronti del pubblico in generale. Inoltre, crescendo il numero di giurisdizioni politiche alternative in rapporto alle persone, l’opzione di fuoriuscita da una di esse da parte del cittadino assume un peso notevole. La libertà di abbandonare uno stato è molto ridotta se esistono solo pochi altri stati dove andare; ma, con un numero elevato di stati, la probabilità di trovare una destinazione soddisfacente cresce di molto.

In aggiunta a ciò, la concorrenza tra gli stati può servire da freno al potere dello stato, dal momento che se uno di questi diventa troppo oppressivo i cittadini possono votare la sfiducia andandosene. Inoltre, la decentralizzazione attenua l’impatto degli errori del governo. Se un singolo governo centralizzato decide di attuare un qualche piano mal congegnato, tutti ne soffrono. Ma con molti stati che attuano politiche differenti, un provvedimento cattivo può essere evitato mentre una misura positiva può essere copiata (anche in questo caso la concorrenza può servire come un processo di scoperta)[8].

 Insomma,  per tutte le ragioni che abbiamo visto, piccolo è bello e soprattutto efficiente!

 

Articolo di Cristian Merlo, originariamente apparso su Diritto di Voto.

 

[1] Frank Karsten, Karel Beckman, Oltre la democrazia, Usemlab, Massa 2012, pp. 110-111.

[2] Hans – Hermann Hoppe, “Contro la centralizzazione”, in Abbasso la democrazia: l’etica libertaria e la crisi dello stato, Leonardo Facco Editore, Treviglio 2000, p. 37.

[3] Antonio Martino, “Federalismo Fiscale” in Semplicemente Liberale,  Liberilibri,  Macerata 2004, p. 124.

[4] Frank Karsten, Karel Beckman, op. cit., p. 86.

[5] Gilberto Oneto, Piccolo è libero. Il ruolo dei piccoli Stati nella storia dell’Europa moderna, Leonardo Facco Editore, Treviglio 2005, pp. 26-27.

[6] Hans – Hermann Hoppe, op. cit., p. 40.

[7] Piercamillo Falasca e Carlo Lottieri, Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2008, p. 98.

[8] Roderick T. Long, Cantoni Virtuali.

 

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